La direttiva n. 2008/115/CE (non ancora trasposta nel nostro ordinamento), laddove fosse interpretata nel senso che essa intende escludere che lo straniero irregolare sia sottoposto ad una spirale senza fine di intimazioni a lasciare il territorio nazionale e di restrizioni della propria libertà, nella sostanza riconducibili esclusivamente alla sua mancanza di cooperazione al rimpatrio volontario, risulterebbe di certo in contrasto con l’intervento legislativo di cui alla legge n. 94 del 2009, recante delle modifiche al D.Lgs. n. 286 del 1998 che hanno inasprito le pene ivi previste, estendendo le ipotesi in cui la violazione dell’ordine di allontanamento volontario integra un delitto, sì da evidenziare come nell’ordinamento interno l’espulsione coattiva sia tuttavia la scelta prioritaria. In tal senso, infatti, si rileva come, a seguito dell’entrata in vigore della legge di cui sopra, non solo è stato introdotto il reato di ingresso o soggiorno irregolare, prevedendo per esso l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva, ma sono state altresì ribadite e novate sia le norme incriminatrici che le disposizioni regolanti l’ordine di allontanamento volontario e le conseguenze della sua violazione. Ne consegue, come accaduto nel caso concreto, la necessità di chiedere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulle questioni di interpretazione degli artt. 2, par. 2, lett. b); 7, par. 1, 4; 8, par. 1, 4; 15, par. 1, 4, 5, 6, della direttiva summenzionata, al fine di stabilire se la norma incriminatrice di cui all’art. 14, comma 5 quater, D.Lgs. n. 286 del 1998, o comunque, la disciplina dell’espulsione che ne costituisce il presupposto, sia in contrasto con la direttiva de qua, dal momento che, se così fosse, lo Stato avrebbe violato l’obbligo di astenersi durante la pendenza del termine di trasposizione della direttiva in questione dall’adottare disposizioni che possano compromettere diritti, la cui tutela costituisce il risultato prescrittivo della normativa comunitaria e che, dunque, non potrebbero dare causa a condanne.

Cass. pen. Sez. I, 08/03/2011, n. 11050

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