È noto che in materia di licenziamenti individuali per giustificato motivo obiettivo (i.e.: «. . . ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa», così l’art. 3, legge 15 luglio 1966 n. 604 – Norme sui licenziamenti individuali), la giurisprudenza, differentemente dalla dottrina come si dirà, sia unanime nell’affermare che il giudice non possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, pena la violazione dell’art. 41 Cost..
I giudici, quindi, sono concordi nel ritenere sindacabile il provvedimento espulsivo quando non risponda ai precetti di buona organizzazione aziendale e razionalità tecnica, con il risultato che, nel quadro di una gestione ottimale dell’impresa, il licenziamento assumerebbe sempre il carattere di extrema ratio.
Sostiene infatti la S.C.: «Ove vengano dedotte esigenze di riassetto organizzativo, finalizzato ad una più economica gestione dell’azienda – la cui scelta imprenditoriale è insindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità – licenziamento ingiustificato (. . .) può considerarsi solo quello non sorretto da alcun motivo (e che quindi sia meramente arbitrario), ovvero sorretto da un motivo che si dimostri pretestuoso e quindi non rispondente alla realtà, di talché la sua ragione debba essere rinvenuta unicamente nell’intento di liberarsi della persona (. . .) e non in quello di perseguire il legittimo esercizio del potere riservato all’imprenditore» (in tal senso, espressamente, Cass. 20 novembre 2001, n. 14604).
Analogamente, in altra pronuncia, è stato detto che «le ragioni di cui all’art. 3 della l. n. 604/1966 debbono essere obiettive e non derivanti da scelte compiute dallo stesso datore senza alcuna necessità» (Cass. 30 gennaio 1998 n. 398; conformi, sulla natura di estrema ratio del licenziamento Cass. 3 giugno 1994 n. 5401, 28 novembre 1992 n. 12746, 28 febbraio 1992 n. 2461, 23 novembre 1990 n. 11312, 30 ottobre 1990 n. 10461).
La menzionata giurisprudenza, ormai in voga da più di un decennio, è giunta alle predette conclusioni sospinta dalla dottrina, la quale ha sempre insistito sulla sindacabilità delle scelte aziendali espulsive ai sensi della legge n. 604/1966, se e quando non conformi ai menzionati precetti della razionalità imprenditoriale.
Sul punto, un autore ha affermato che « (. . .) dalla previsione di motivi attinenti in genere all’attività produttiva discende un limite esterno al potere di licenziamento, nel senso che questo non può essere esercitato se non quando lo giustifichino le esigenze tecniche della produzione o la corretta applicazione delle regole dell’organizzazione del lavoro» (in tal senso, Riva Sanseverino, in Commentario delle leggi sul lavoro, Padova 2001, 959).
Fermo tutto quanto fin qui esposto, in materia di licenziamento per giustificato motivo obiettivo, la giurisprudenza ha poi costituito, in capo al datore recedente, un onere della prova dell’impossibilità di adibire utilmente – e perciò senza sacrificio apprezzabile – il lavoratore a mansioni diverse da quelle ove non è più possibile il suo impiego (cd. regola del repêchage).
In conclusione, si leggano le precisazioni della S.C.: «la legittimità del licenziamento presuppone la dimostrazione, da parte del datore di lavoro, ( . . .) delle ( . . .) ragioni ostative ad un impiego del medesimo (il lavoratore, n.d.r.) con mansioni almeno equivalenti in luoghi diversi» (Cass., sez. lav., 11 agosto 1998 n. 7904; in termini, id., 4 settembre 1997 n. 8505, 13 ottobre 1997, n. 9967, 20 novembre 2001 n. 14592, 21 novembre 2001 n. 14463; conforme la giurisprudenza di merito: Trib. di Milano, sez. lav., 23 giugno 1999, id., 31 ottobre 2000, 22 novembre 2001).
Giorgio Vanacore
avvocato in Napoli

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