Corte di Cassazione Sezione 3 Civile 23 giugno 2021 n. 17968 Massima ufficiale

Procedimento civile – Notificazione – A mezzo posta notifica decreto ingiuntivo a mezzo pec – Classificazione della e – Mail come messaggio di posta indesiderata nella cartella “spam” – Cancellazione del messaggio ad opera dell’addetto alla ricezione – Causa di giustificazione ai fini dell’opposizione tardiva – Esclusione – Onere del ricevente di assicurarsi del corretto funzionamento della casella di posta elettronica certificata – Sussistenza – Fondamento. 

Nell’ipotesi di notifica del decreto ingiuntivo a mezzo PEC, a norma dell’art.3 bis della l. n. 53 del 1994, la circostanza che la e-mail PEC di notifica sia finita nella cartella della posta indesiderata (“spam”) della casella PEC del destinatario e sia stata eliminata dall’addetto alla ricezione, senza apertura e lettura della busta, per il timore di danni al sistema informatico aziendale, non può essere invocata dall’intimato come ipotesi di caso fortuito o di forza maggiore ai fini della dimostrazione della mancata tempestiva conoscenza del decreto che legittima alla proposizione dell’opposizione tardiva ai sensi dell’art.650 c.p.c.; ciò in quanto l’art.20 del d.m. n. 44 del 2011 (regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi di cui al d.lgs. n. 82 del 2005), nel disciplinare i requisiti della casella PEC del soggetto abilitato esterno, impone una serie di obblighi – tra cui quello di dotare il terminale informatico di “software” idoneo a verificare l’assenza di virus informatici nei messaggi in arrivo e in partenza, nonché di “software antispam” idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi indesiderati – finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella di posta elettronica certificata, il cui esatto adempimento consente di isolare i messaggi sospetti ovvero di eseguire la scansione manuale dei relativi “files”, sicché deve escludersi l’impossibilità di adottare un comportamento alternativo a quello della mera ed immediata eliminazione del messaggio PEC nel cestino, una volta che esso sia stato classificato dal computer come “spam”. PUBBLICAZIONE CED, Cassazione, 2021

Sentenza completa

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA   Raffaele Gaetano Antonio            –  Presidente   –

Dott. SCODITTI Enrico                              –  Consigliere  –

Dott. IANNELLO Emilio                              –  Consigliere  –

Dott. POSITANO Gabriele                       –  rel. Consigliere  –

Dott. GUIZZI   Stefano Giaime                      –  Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10227/2019 proposto da:

GENERALI PREFABBRICATI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DELLE MEDAGLIE D’ORO 113, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA

MARIA CONSUELO SANGUEDOLCE, rappresentato e difeso dall’avvocato

GIOVANNI RONDINI;

– ricorrenti –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

SABOTINO 46, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO FERRONI, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 277/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 22/01/2019.

FATTI DI CAUSA

Con ricorso del 17 aprile 2015, UnipolSai chiedeva al Tribunale di Bologna di emettere ingiunzione di pagamento nei confronti di Generali Prefabbricati S.p.A. per essere stata escussa, ad opera di RFI S.p.A. sulla base di una polizza fideiussoria rilasciata nell’interesse di una associazione temporanea di imprese, con a capo la società mandataria (OMISSIS) (dichiarata fallita dal Tribunale di Milano con sentenza del 17 febbraio 2005) e della mandante, Generali Prefabbricati.

Il decreto ingiuntivo emesso il 29 aprile 2015 veniva notificato a Generali Prefabbricati S.p.A., dai difensori di UnipolSai Ass.ni, a mezzo PEC, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3 bis, in data 12 giugno 2015, mentre il 16 ottobre 2015, era data esecutorietà al decreto ai sensi dell’art. 647 c.p.c. e, conseguentemente, in data 14 settembre 2016, UnipolSai notificava all’atto di precetto.

Con atto di citazione, portato per la notifica il 22 settembre 2016, Generali Prefabbricati proponeva opposizione ai sensi dell’art. 650 c.p.c. deducendo, preliminarmente, di non aver avuto tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo, per caso fortuito o forza maggiore, legittimante l’impugnazione tardiva e ciò in quanto la mail PEC di notifica del ricorso del decreto monitorio era finita nella cartella della “posta indesiderata” della propria casella PEC (spam) ed era stata eliminata dall’impiegata preposta, senza apertura e lettura della busta, per timore di danni al sistema informatico aziendale. Nel merito contestava la esistenza del credito.

Si costituiva l’opposta UnipolSai chiedendo, preliminarmente, dichiararsi l’inammissibilità dell’opposizione tardiva per mancanza dei presupposti previsti all’art. 650 c.p.c. e, nel merito, il rigetto.

Il Tribunale di Bologna, con sentenza dell’11 maggio 2018, emessa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., dichiarava inammissibile l’opposizione tardiva, compensando le spese tra le parti.

Secondo il Tribunale la notificazione effettuata dai difensori di UnipolSai possedeva i requisiti di validità previsti dal citato art. 3 bis, con la conseguenza che si doveva considerare perfezionata per il destinatario nel momento in cui era stata generata la ricevuta di avvenuta consegna. Non sussisterebbero i presupposti della mancata conoscenza incolpevole, per caso fortuito o forza maggiore, non ricorrendo l’ipotesi di circostanza “assolutamente ostativa e meramente oggettiva, avulsa dalla volontà umana”, atteso che l’elemento determinante era rappresentato dalla scelta volontaria della persona preposta, di cestinare la PEC per evitare un presunto rischio per il sistema informatico.

Avverso tale decisione proponeva appello la società Generali Prefabbricati S.p.A.. Si costituiva UnipolSai Ass.ni insistendo per il rigetto del gravame.

La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 22 gennaio 2019, facendo propria la motivazione adottata dal Tribunale, rigettava l’impugnazione condannando parte appellante al pagamento delle spese di lite.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione Generali Prefabbricati S.p.A. affidandosi a motivi. Resiste con controricorso UnipolSai Ass.ni S.p.A..

La trattazione del ricorso è stata fissata in udienza pubblica, ma il Collegio ha proceduto in Camera di consiglio ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con L. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta di discussione orale, con adozione della presente decisione in forma di sentenza in ragione della modalità di trattazione già fissata. Il Procuratore generale ha formulato le sue conclusioni motivate ritualmente comunicate alle parti insistendo per il rigetto del ricorso. Le parti hanno depositato memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione fra le parti, stante la mancata ammissione di mezzi di prova orali sull’esercizio della dovuta diligenza nel controllo della Posta Elettronica Certificata in ingresso e nell’installazione di sistemi di protezione antivirus sulla propria rete informatica. In particolare, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si deduce che la Corte non avrebbe considerato il fatto decisivo che aveva impedito la conoscenza effettiva del decreto ingiuntivo nei termini riferiti dalla dipendente, segretaria della azienda, T.M. la quale aveva precisato che nella giornata di venerdì 12 giugno 2015 era sola in ufficio ed era la prima volta che riceveva una notifica di un atto giudiziario a mezzo PEC, ricordando che in precedenza un virus informatico aveva messo in crisi il software aziendale. Tali circostanze rilevanti e non contestate sarebbero state oggetto di richiesta di prova testimoniale erroneamente disattesa.

Il motivo è inammissibile per una pluralità di ragioni.

In primo luogo, la ricorrente omette di dedurre e documentare di avere formulato uno specifico motivo di appello al fine di sollecitare l’ammissione delle prove articolate in primo grado e che sarebbero state disattese dal Tribunale.

In secondo luogo, la censura è dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale omessa considerazione di un fatto storico, rappresentato dalle circostanze poste a sostegno della opposizione tardiva (nello specifico, profili istruttori). Tale doglianza è inammissibile in presenza di una doppia conforme atteso il divieto contenuto dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5 e non avendo parte ricorrente precisato che la decisione di secondo grado sarebbe fondata su elementi fattuali diversi rispetto a quella del Tribunale.

In terzo luogo, con il ricorso si lamenta sostanzialmente la mancata ammissione della prova, facendo riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, ma tale ipotesi esula del tutto dalla fattispecie richiamata che, come si è detto, riguarda la mancata considerazione di un fatto storico.

Infine, la censura è dedotta in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, mancando di trascrivere il tenore delle prove orali che la ricorrente avrebbe voluto fossero ammesse, sì da impedire ogni valutazione circa la loro rilevanza e decisività.

Quando il ricorso si fonda su documenti, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:

(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;

(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;

(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis, Sez. 6-3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).

Principio ribadito da ultimo dalle Sezioni Unite secondo cui sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Sez. U., Sentenza n. 34469 del 27/12/2019, Rv. 656488 – 01).

La ricorrente ha omesso di assecondare tutti gli oneri richiesti, non avendo trascritto il contenuto dei capitoli di prova, non avendo individuato la fase processuale della tempestiva richiesta e non avendo precisato di avere reiterato in appello tale istanza, omettendo di allegare e localizzare all’interno del fascicolo di legittimità gli atti richiamati.

Con il secondo motivo si deduce la violazione degli art. 647 e 650 c.p.c.. La Corte di appello di Bologna non avrebbe considerato che l’addetta alla ricezione della P.E.C., già a conoscenza di una precedente aggressione virale del sistema informatico della ricorrente, era stata costretta ad eliminare la notificazione via P.E.C. del decreto ingiuntivo non opposto, al solo fine di evitare il ripetersi di una simile dannosa situazione. Tale inevitabilità della scelta dell’addetta alla ricezione P.E.C. integrava gli estremi di quella forza maggiore che avrebbe consentito di giustificare l’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c..

La censura è infondata atteso che l’argomentazione non consente di giustificare l’omesso controllo della posta qualificata da parte dell’addetta alla ricezione, in presenza di una determinata PEC, smistata dal sistema interno fra la posta elettronica indesiderata e contrassegnata come spam.

I programmi di posta elettronica non sono in grado di individuare, con esattezza, i messaggi da qualificarsi come spam, e – pertanto – rientra nella diligenza ordinaria dell’addetto alla ricezione della posta elettronica il controllo anche della cartella della posta indesiderata, atteso che in tale cartella ben possono essere automaticamente inseriti messaggi provenienti da mittenti sicuri e attendibili e non contenenti alcun allegato pregiudizievole per il destinatario.

Le suddette cautele di attenzione sono note a chi opera professionalmente quale recettore dei messaggi di posta elettronica, strumento di notificazione telematica che ormai appartiene al know how di ogni operatore commerciale – e per lui, dei suoi ausiliari – stante la sua diffusione e il suo valore di comunicazione idonea a produrre effetti giuridici.

In materia questa Corte si è già pronunciata, affermando che il titolare dell’account di posta elettronica certificata ha il dovere di controllare prudentemente tutta la posta in arrivo, ivi compresa quella considerata dal programma gestionale utilizzato come “posta indesiderata” (Cass. n. 7752 del 2020 e Cass. Sez. L. 21-05-2018, n. 12451; Cass. civ. Sez. I, 03-01-2017, n. 31; Cass. civ. Sez. VI-1, 07-07-2016, n. 13917).

Come rilevato da questa Corte (Cass. n. 3965 del 2020) del D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art. 20 (“regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. B2, e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22 febbraio 2010, n. 24”), disciplina i “requisiti della casella di P.E.C. del soggetto abilitato esterno”, imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella di P.E.C. e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta elettronica; in particolare, il “soggetto abilitato esterno”, cioè, nel caso che ci occupa, il difensore della parte privata, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. 3 R.G. 25467/2018 m) del D.M. n. 44 del 2011: a) “è tenuto a dotare il terminale informatico utilizzato di software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio in arrivo e in partenza e di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati” (comma 2); b) “è tenuto a conservare, con ogni mezzo idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia” (comma 3); c) è tenuto a munirsi di una casella di posta elettronica certificata che “deve disporre di uno spazio disco minimo definito nelle specifiche tecniche di cui all’art. 34” (comma 4); d) “è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l’effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione” (comma 5).

Nel caso di specie ciò avrebbe consentito di isolare la mali ritenuta sospetta e porla in cd quarantena ovvero di eseguire la scansione manuale del file in questione, azionando il prescritto “software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio”.

Come rilevato dai giudici di merito, tali considerazioni appaiono particolarmente pregnanti se riferite al caso concreto in cui il messaggio era espressamente riferito alla L. n. 53 del 1994, la cui rilevanza è nota a chi professionalmente può essere destinatario di comunicazione a mezzo P.E.C..

Le considerazioni oggetto della memoria non superano quanto detto, dovendosi escludersi – per quanto sopra argomentato – che l’addetta alla ricezione P.E.C. non potesse in alcun modo adottare un comportamento alternativo a quello della mera ed immediata eliminazione del messaggio P.E.C. nel cestino, una volta classificato dal computer come spam.

Rimangono assorbiti i restanti motivi che sono stati dedotti “subordinatamente alla ipotesi di accoglimento dei motivi” precedenti. La ricorrente, nella parte finale del ricorso (pagine da 25 a 35), riproduce i motivi di opposizione che, in ragione della pronunzia di inammissibilità dell’opposizione tardiva, non erano stati presi in esame in sede di merito e che vengono reiterati per l’ipotesi di favorevole decisione da parte della Corte di legittimità ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Tali considerazioni riguardano rispettivamente:

– il difetto di legittimazione passiva di Generali Prefabbricati S.p.A;

– l’infondatezza dell’azione di regresso e conseguente insussistenza del debito;

– la circostanza che la polizza sarebbe sottoscritta in nome proprio dalla sola S.p.A. (OMISSIS), che resterebbe l’unica obbligata con conseguente estraneità della S.p.A. Generali prefabbricati dalla solidarietà prospettata nel ricorso monitorio;

– il mandato con rappresentanza non si estenderebbe alla stipula della polizza fideiussoria prospettandosi, al più, ed in via subordinata, una responsabilità solidale pro quota;

– l’eccezione di prescrizione relativamente agli interessi legali con riferimento alla parte della pretesa più risalente rispetto al termine di cinque anni previsto all’art. 2948 c.c..

Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 3800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2021