La giurisprudenza e la dottrina giuslavoristiche da almeno un quindicennio richiedono all’impresa recedente, a supporto della legittimità del licenziamento individuale, l’onere della prova liberatoria dell’impossibilità di un’utile (e perciò senza sacrificio apprezzabile) reimpiegabilità del lavoratore nel comparto aziendale in mansioni diverse da quelle precedentemente rivestite (cd. regola del repêchage; Cfr., ex multis, Cass., sez. lav., 20 novembre 2001, n. 14592, idd., 11 agosto 1998, n. 7904, 4 settembre 1997, n. 8505, in Dir. lav., 1998, II, 178, 19 luglio 1993, n. 6814, in Mass. giur. lav., 1993; tra la in Giur. merito, Trib. Roma, sez. lav., 12 febbraio 2003, id., 19 luglio 2002, Trib. Milano, sez. lav., 27 dicembre 2001, id., 31 ottobre 2000, 30 ottobre 2000. In dottrina, per tutti, Ichino, Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 481 e ss.).
Non inopportuno è compulsare la casistica giurisprudenziale sul punto, che ha considerato assolto l’onere de quo nei casi seguenti:
a) decorso di oltre un anno tra il licenziamento e la prima assunzione di un dipendente di pari qualifica rispetto al licenziato ed un periodo di oltre otto mesi tra il licenziamento e la prima copertura di un posto equipollente (App. Torino, 13 dicembre 2006);
b) fatto che i residui posti di lavoro, riguardanti mansioni equivalenti, fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati da altri lavoratori, o che, dopo il licenziamento e per un congruo periodo, non sia stata effettuata alcuna nuova assunzione (Trib. Salerno, 20 marzo 2003, Trib. Roma, 12 febbraio 2003, cit.);
c) chiusura di un ufficio con unico addetto – id est, il lavoratore licenziato –, al fine di concentrare l’attività svolta da questi presso altra unità produttiva, caso in cui si è comunque pretesa dal lavoratore la prova della conformità di una tale soluzione alla razionalità nel modificare l’assetto organizzativo del lavoro (Trib. Milano, 27 dicembre 2001).
Ancora, in tale campo si è asserito che la detta prova dell’impossibilità di reimpiego del dipendente in altra mansione, concernendo un fatto negativo, possa essere assolta mediante l’allegazione dei corrispondenti fatti positivi contrari:
Cass., sez. lav. 29 marzo 1999, n. 3030, e, tra la giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 12 febbraio 2003, cit., entrambe recettive delle ormai risalenti Cass., 28 aprile 1981, n. 2586 e 15 giugno 1982, n. 3644, del seguente tenore: «L’onere della prova dei fatti costitutivi del diritto o di quelli modificativi, impeditivi o estintivi grava su colui che faccia valere il diritto stesso o che ne eccepisca la modificazione, l’impedimento o l’estinzione, anche se tali fatti siano negativi, comportando la loro negatività non già l’inversione dell’onere suddetto, ma soltanto che la relativa prova deve essere fornita mediante quella dei fatti positivi contrari».
Tale ultima recente tesi – che, si ripete ne esige la prova in giudizio mediante la dimostrazione del fatto positivo contrario –, rappresenta la ripulsa degli operatori del principio negativa non sunt probanda, in ossequio al quale la prova del fatto negativo è diabolica e va pertanto bandita, perché pretende di dimostrare ciò che non è.
Comunque, due le teorie in campo:
a) una prima, tradizionale, che dispensa colui che ha interesse dalla relativa dimostrazione, riversando sulla controparte la prova del fatto opposto, il tutto in adesione al cd. principio di vicinanza o riferibilità della prova, cui aderisce la celeberrima Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, 769: «In tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento». Conff., in tema, Cass., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141, idd., 21 giugno 2004, n. 11488, 28 maggio 2004, n. 10297, 4 marzo 2004, n. 4400, 10 maggio 2002, n. 6735; tra la giurisprudenza di merito, Trib. Venezia, 20 settembre 2005, Trib. Foggia, 7 aprile 2003. In dottrina, Patti, op. loc. ult. cit., autore cui si deve, più di tutti, la tesi in argomento, che la giurisprudenza ha fatto propria nelle sentenze appena citate;

b) una seconda, che fa gravare la prova su tale ultimo soggetto alla stregua di qualsivoglia fatto positivo (Cass., 11 febbraio 1999, n. 1170, 10 marzo 1992, n. 2881, idd., 23 dicembre 1991, n. 13872, 8 maggio 1991, n. 5137, 25 gennaio 1991, n. 756, 28 aprile 1981, n. 2586; in dottrina, sostenitrice di tale opzione, tra tutti, Cisiano, nota a Cass., n. 1170/1999, cit., in http://www.ius.unitn.it/cardozo/Review/Contract/cisano2.html, e riferimenti bibliografici ivi).
In proposito, Cass., 13533/2001, cit., dà conto dei due orientamenti in campo: «La difficoltà per il creditore di fornire la prova di non aver ricevuto la prestazione, e cioè di fornire la prova di un fatto negativo (salvo che si tratti di inadempimento di obbligazioni negative), è superata dai sostenitori dell’orientamento maggioritario con l’affermazione che nel vigente ordinamento non vige la regola secondo cui la prova dei fatti negativi può essere data mediante la prova dei fatti positivi contrari. Si tratta tuttavia di una tecnica probatoria non agevolmente praticabile: il creditore che deduce di non essere stato pagato avrà serie difficoltà ad individuare, come oggetto di prova, fatti positivi contrari idonei a dimostrare tale fatto negativo; al contrario, la prova dell’adempimento, ove sia avvenuto, sarà estremamente agevole per il debitore, che di regola sarà in possesso di una quietanza (al rilascio della quale ha diritto: art. 1199 c.c.) o di altro documento relativo al mezzo di pagamento utilizzato. Si rivela quindi conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l’onere della prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, sia questa diretta all’adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del danno, fornendo la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall’adempimento».
GIORGIO VANACORE
AVVOCATO IN NAPOLI

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